Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Marzo 5th, 2011 | by sally
0Summary: Una sfida contro la natura e la morte. Ma ricorda: quando esci di casa, dici sempre dove sei
La prima cosa che si impara da “127 ore” è: quando esci di casa, dici sempre dove sei. Il film, candidato a 6 premi Oscar ma tornato a casa a mani vuote, segna il ritorno in sala dell’acclamato regista di “Trainspotting” e vincitore dell’ambita statuetta (più d’una, a dire il vero) per “The Millionaire“, Danny Boyle.
Quel che ci viene in mente alle prime scene del film è proprio “The Millionaire“, perché il regista ci propone una serie di immagini caotiche e dai colori accesi, gente intenta ad andare, ma chissà dove, a mo’ di video musicale. Tra tutta questa gente c’è l’ingegnere meccanico Aaron Ralston, appassionato di alpinismo, c’è da dirlo, fino all’estremo. Uomo contro natura, quindi, ma chi sarà a perdere la battaglia non è poi così scontato. Quella di “127 ore” è una storia vera, Ralston nel 2003 ha vissuto questa terribile esperienza, rimanendo intrappolato in un canyon durante una scalata. Bloccato per cinque giorni a causa di un masso, Aaron Ralston ci ha rimesso il braccio destro, ma il suo caso suscitò talmente tanto clamore mediatico da finire su tutti i principali talk sow americani, per poi arrivare all’uscita del libro autobiografico “Between a Rock and a Hard Place“. Nel film ad interpretare Ralston c’è un grandioso James Franco. Il 28enne decide di incamminarsi per una scalata di trekking solitario nel Blue John Canyon, nello Utah. Ralston incontra due ragazze lungo il percorso ed insieme trascorrono qualche ora divertendosi tra una scalata e un tuffo in acqua, ma le ragazze saranno troppo lontane quando l’ingegnere, smuovendo un masso durante una scalata, finirà incastrato in un canyon, con il braccio destro completamente bloccato dal masso. Passeranno cinque giorni prima che Ralston decida di ricorrere ad una soluzione drastica, pur di salvarsi la vita. L’unico modo per tornare in superficie e chiedere aiuto, senza aggiungere la difficoltà di trovare soccorsi in mezzo al deserto, è proprio quello di amputarsi il braccio. Danny Boyle ricorre a svariati stratagemmi pur di rendere la pellicola meno statica possibile. Sorge spontaneo l’accostamento con “Buried“, che vedeva un superbo Ryan Reynolds intrappolato dentro una cassa di legno e sepolto in mezzo al deserto. Certo, si tratta di roba più pesante ed ancor più claustrofobica che non permette allo spettatore di evadere dalla bara, mentre in questo caso, avvalendosi del trucchetto del flashback, Danny Boyle ci porta a fare un giro nella vita di questo ragazzo, che non scorge altro davanti a sé, se non la fine dei suoi giorni.
Tra ricordi ed allucinazioni, proposti con musica ad alto volume e colori vivaci, il regista ci porta a conoscere il personaggio, ormai affaticato dalle interminabili ore trascorse nel vano tentativo di liberarsi dal masso, incapace di distinguere l’allucinazione dalla realtà. Tra le scene più belle, senza alcun dubbio, troviamo il particolare “show televisivo” messo in piedi dallo stesso Ralston, che parla alla sua famiglia e agli amici attraverso la telecamera, sperando che qualcuno possa riuscire a trovarlo. Danny Boyle si rivela un’ottima risorsa nel mondo cinematografico, appoggiato da John Harris al montaggio e dalle musiche di A. R. Rahman (Oscar e Golden Globe per la colonna sonora di “The Millionaire”, quindi roba seria). James Franco è a dir poco strepitoso, in un ruolo che risulta essere decisamente difficile, tanto quanto il compito, per il regista, di non annoiare lo spettatore per un’ora e mezza di film. Anche in questo caso, non si può fare a meno di paragonare la performance di Franco a quella di Ryan Reynolds. La capacità di intrattenere, oltre che nella sceneggiatura, sta tutta nell’espressività dell’attore ed in questo caso possiamo dire in tutta tranquillità che James Franco è riuscito perfettamente. Per quanto riguarda il vero Aaron Ralston, ha potuto continuare a coltivare la sua passione e quindi arrampicarsi, grazie all’impianto di una particolare protesi che gli permette di montare differenti “tipi di mani”, una sorta di capitan Uncino dei nostri giorni, che è riuscito a sfidare la natura e la morte, con incredibile tenacia.