Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Ottobre 30th, 2012 | by sally
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Sette registi diversi, come i giorni della settimana, per raccontare un’esperienza all’Avana. La capitale di Cuba si trasforma così in una base per sette cortometraggi, tutte storie differenti che si intrecciano tra di loro per qualche elemento, dirette da alcuni dei migliori registi in circolazione: Julio Médem, Laurent Cantet, Juan Carlos Tabío, Benicio del Toro, Gaspar Noé, Pablo Trapero e Elia Suleiman.
Il tentativo di questo film collettivo è quello di raccontare Cuba gettando sulla città uno sguardo diverso dal solito. Ma allontanarsi dagli stereotipi senza inciampare nei più noti luoghi comuni è un’impresa davvero difficile. In “7 days in Havana” almeno in parte è riuscita. Il film ci porta in un mondo che sembra lontanissimo da noi (e così è effettivamente), in cui si incontrano elementi come l’amore, la nostalgia, la solitudine, l’alienazione. Tutto ben condito da una bella manciata di malinconia, tra i colori cupi e l’oceano sempre infuriato, “7 days in Havana” riesce a regalare una cartolina talvolta pittoresca della capitale, riuscendo a rendere lo spettatore desolato e nostalgico, come se lì ci fosse stato davvero.
Il primo episodio è diretto da Benicio Del Toro e vede protagonista Josh Hutcherson, in arrivo da New York per frequentare la scuola di cinema. Il ragazzo, di nome Teddy, incontra il suo autista Angèl, che lo porta a conoscere l’Avana e tutte le sue bellezze. Una in particolare colpirà il ragazzo, rivelandosi la più grande sorpresa, tra bottiglie di rum e sigari fumati avidamente nelle sale da ballo.
Emir Kusturica che interpreta se stesso in questo episodio apre il film da uno squallido bagno di un locale, dove si ritrova completamente sbronzo e un po’ fuori tempo. Lo sarà per tutta la durata del corto, il regista deve essere premiato ad un festival cinematografico, ma si ritrova rapito da una divertente jam session per strada, incurante della gente che gli sta attorno.
E’ Julio Médem a raccontare il mercoledì, che vede protagonista Cecilia. Bravissima cantante, sogna un futuro in Spagna dopo aver incontrato un imprenditore arrivato da Madrid che le promette una vita meravigliosa, dichiarando di essere disposto a lasciare la compagna per lei. Cecilia ci pensa e se ne convince, ma deve fare i conti con il suo compagno Josè, giocatore di baseball sull’orlo de fallimento, che intende sbarcare clandestinamente in Florida in cerca di fortuna, lei deve solo decidere se seguirlo o meno.
Uno degli episodi più significativi ed anche il più silenzioso di tutti è quello di Elia Suleiman, il regista palestinese si pone in netto contrasto con i personaggi che gli stanno attorno. Osserva, sempre in silenzio, raccontando senza parlare un’Avana assediata da turisti intenti a fare foto stupide e a mettersi sempre in posa, mentre lui scruta le vite di ogni passante. Surreale e profondo, con quest’uomo che non riesce a trovare mai la stanza d’albergo che rappresenta lo smarrimento all’interno della città, piena di colori e personaggi pittoreschi, ma anche all’interno della vita stessa.
Gaspar Noè è il regista dell’episodio più cupo ed oppressivo di tutti: un’adolescente viene sottomessa ad un rituale con un esorcista perché attratta dalle ragazze. Assistiamo all’intero rituale, completamente al buio, angosciante, arcaico. A questo punto “7 days in Havana” si avvicina definitivamente al tema della religione, ancora più sentito nell’ultimo corto.
Siamo al sabato, l’episodio diretto da Juan Carlos Tabìo ci mostra una donna intenta a preparare dei dolci per una festa molto importante. Lei è una psicologa, che si divide tra la cucina (clandestinamente) e la televisione, un marito sempre ubriaco e due figlie avute da due uomini diversi. La più grande sta per abbandonare definitivamente il nido ed incarna perfettamente il sentimento comune dell’intera famiglia: sogni da realizzare che non trovano respiro in una città caotica e controversa. La protagonista femminile è la donna che tiene in piedi la famiglia, la figura maschile è relegata all’immagine di aiutante superfluo, quasi un peso; sulle spalle di Mirta pesano carriera, sacrifici e affetti.
L’episodio diretto da Laurent Cantet ci mostra un’anziana donna intenta a preparare una festa in onore della Vergine. E’ qui che la religione assume connotati grotteschi, sopra le righe. La donna metterà in moto l’intero quartiere per realizzare, anche se con poche risorse, tutto quello che la Vergine le ha chiesto in sogno: un muro giallo, un vestito giallo, tanti fiori ed una fonte in mezzo alla stanza. La sua fede coinvolgerà anche tutti gli altri che, in un modo o nell’altro, troveranno la soluzione ad ogni problema.
Tra episodi surreali e non “7 days in Havana” come già detto, lascia un sapore malinconico, quella sensazione che si prova quando si va in un posto in cui si è stati tanto bene da non volersene andare più via. Che è un po’ la sensazione che provano, bene o male, tutti i nostri protagonisti: c’è chi deve andare via e c’è chi vorrebbe farlo, ma rimane sempre quel groppo in gola che sa un po’ di saudade, che ti lascia Cuba nel cuore. Sette giorni per innamorarsi dell’Avana e sette registi, non sempre troppo abili ed efficaci nelle loro scelte e sette, il voto, per chiudere il cerchio.
Voto:
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