Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Ottobre 29th, 2010 | by antoinedoinel
0Summary: Il regista ha tratto ispirazione dalla mattanza malavitosa che insanguinò Melbourne nel 1998, e il risultato lo ricompensa della fatica.
“I criminali […] dovrebbero sapere che va sempre a finire male”, scandisce, grave e monocorde, la voice over di Joshua “J” Cody. Una frase che potrebbe fungere da epigrafe a ogni gangster movie che si rispetti. Frase che David Michôd colloca in una delle scene di apertura di Animal kingdom. Vincitore del Premio della Giuria al Sundance, in programma, fuori concorso, al Festival di Roma, l’australiano Animal kingdom segna l’esordio di Michôd, finora autore di corti e documentari, nel lungometraggio di fiction, benché ogni contenuto finzionale del film sia elaborazione e variante di fatti realmente consumatasi. Il regista, infatti, che firma anche la sceneggiatura e si è ritagliato un cammeo in veste da giornalista, ha tratto ispirazione dalla mattanza malavitosa che insanguinò Melbourne nel 1998, e il risultato lo ricompensa della fatica.
Un incipit beffardo ci cala nel ventre del dramma. J (il giovane e ombroso James Frecheville), un adolescente introverso ai limiti dell’autismo, attende l’ambulanza che lui stesso ha chiamato a soccorrere la madre, agonizzante sul divano per un’overdose di eroina. Attende, ma non schioda gli occhi dal quiz che danno in tv, continuando a sbirciare anche dopo l’arrivo dei soccorritori. La madre è morta. J è rimasto solo e, non avendo padre, trasloca dalla famiglia materna, i Cody. Dai tre zii, di cui non si capisce se il più onesto sia quello che rapina o quello che spaccia, e dalla nonna psicotica (Jacki Weaver) che dispensa agli uomini di casa baci libidinosi in odore di incesto e, intanto, regge le redini di un’associazione a delinquere a gestione familiare braccata dalla polizia. J arriva proprio nella fase in cui il testa a testa con le forze dell’ordine (composte, nella migliore tradizione, anche di individui tutt’altro che intonsi) assume i risvolti più dolenti. Risucchiato nella spirale perversa di una dialettica senza esclusione di colpi di soprusi e vendette, sospinto dagli eventi a oscillare tra il versante del crimine, come buon sangue impone, e quello della giustizia, sotto l’ombrello protettivo di un poliziotto onesto (il composto Guy Pearce) che lo vorrebbe trasformare in un collaborare e, al contempo, diviene per lui il padre mai conosciuto, Joshua, scoprendo la ferocia della natura umana e formandosi un’idea propria di ciò che è giusto e ciò che sbagliato, diverrà, tragicamente, uomo.
All’iter collaudato, e peculiare del genere, di ascesa e conseguente caduta del protagonista, Michôd predilige, alla materia criminale, un approccio differente, basato sul punto di vista di un elemento esterno, J per l’appunto, destinato a inoltrarsi nella tana del male tanto da osservarla nel dettaglio (e restituircene un quadro fededegno) ma non abbastanza da aderirvi in toto. L’innocenza di J se n’è andata alle ortiche quando il film si congeda, ma la sospensione dell’epilogo rifiuta di fornirci certezze sulla sorte dei personaggi. E di una famiglia ormai smembrata. Famiglia che rappresenta il luogo narrativo centrale, il regno della bestialità evocato dal titolo. Poco somigliano, i Cody, ai Corleone del Padrino, anche e soprattutto per il timbro adottato da Michôd nel racconto: il fato luttuoso che incombe sui personaggi si sottrae, in Animal kingdom, a liriche e magniloquenti considerazioni sulla solitudine o la sofferenza dell’esistere. Il distacco clinico e la sobrietà emotiva rimandano piuttosto a Scorsese, ma a Michôd, lo si riconosca, manca lo stesso cinismo, come anche il mordente che rende ineguagliabili Quei bravi ragazzi e Casinò. Ciò che da un lato si apprezza dell’opera, ossia la misura, l’austerità, il contegno, si rivela, dall’altro, il limite che impedisce a Animal kingdom di mozzare il fiato allo spettatore. Un montaggio più dinamico, qualche soluzione a effetto che recidesse, di botto, il nobile e benintenzionato filo del verbo di Michôd, forse non avrebbero guastato. Ma la pellicola se la cava bene già così, forte anche di un cast indubbiamente azzecato. Ben Mendelsohn, nel ruolo dello zio Andrew, il rapinatore, soprannominato “Pope”, ci regala con impagabile maestria la turpitudine di un personaggio viscido e ributtante. E se Frecheville si prenota un futuro attoriale degno di considerazione, fra tutti, a calamitare le attenzioni del pubblico, è la satanica Jacki Weaver, a suo tempo una delle fanciulle del leggendario Picnic a Hanging Rock, con una raffinata coreografia di colpi di sopracciglio, sguardi imperscrutabili, gesti e movenze di ferale ambiguità, a celebrare una presenza scenica dirompente. Nel regno delle fiere, la regina è lei.