Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Ottobre 18th, 2012 | by alessandro ludovisi
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“Ballata dell’odio e dell’amore” è una pellicola poco conosciuta dal pubblico italiano nonostante sia stata apprezzata e premiata al Festival di Venezia. Il film, diretto dal regista basco Alex de la Iglesia e interpretato da Carlos Aceres, Antonio de la Torre e Carolina Bang, uscirà nei cinema italiani dal prossimo otto novembre. Alex de la Iglesia è uno dei registi spagnoli più talentuosi, capace di agire fuori da schemi prestabiliti e di scaricare sullo schermo una potenza visiva non comune, basti ricordare opere come “El dia della Bestia” e “Azione mutante”. “Ballata dell’odio e dell’amore” (in lingua originale il più evocativo “Balada triste de Trompeta”) è probabilmente il suo film più sofferto, rappresentato con una messa in scena viziata dagli incubi del regista che trasferisce nelle immagini passioni e paure del suo passato.
Nel 1937 la Spagna è nel mezzo della terribile Guerra Civile. Il pagliaccio di un circo viene interrotto durante una performance e reclutato con la forza da un gruppo di repubblicani che lo conduce direttamente sul campo di battaglia. Armato solo di un machete il clown, con indosso ancora il costume di scena, massacra un intero plotone.
1973. Sono gli ultimi giorni del regime franchista e Javier, il figlio del pagliaccio, sogna di seguire le orme del padre, ma nella sua vita ha dovuto sopportare troppe tragedie e per questo non potrà mai essere un clown divertente. Trova lavoro come pagliaccio triste in un circo dove fa conoscenza con alcuni bizzarri personaggi tra cui Sergio, un pagliaccio divertente ma crudele e la sua compagna Natalia una trapezista avvenente. Javier si innamorerà di Natalia provocando la gelosia di Sergio e ben presto tra i due si scatenerà una imprevedibile e feroce battaglia.
Alex de la Iglesia scopre immediatamente le carte e quella che ha in mano è una scala reale: ammaliante, ricca e vincente. Il regista basco si affida a un doppio prologo, da una parte una lunga carrellata di immagini del passato stampate in bianco e nero sullo schermo e rappresentative della Spagna – e non solo – che fu; dall’altra parte spedisce un clown – ancora vestito da clown – sul campo di battaglia, lo arma con un machete e lo rende protagonista di alcuni corpo a corpo efferati e drammaticamente agli antipodi con la figura simpatica e rassicurante che un pagliaccio dovrebbe rappresentare. Il messaggio è chiaro: nella Spagna lacerata dalla guerra civile non c’è tempo per lo svago, ogni individuo è necessario alla causa (repubblicana o franchista che sia) e per i bambini urge una rapida crescita, spoglia della spensieratezza che la loro età consentirebbe. Anche Javier cresce alla svelta, si rende responsabile di un attentato, lotta per la libertà del padre catturato e alla fine si arrende alle sue parole: “Javier non puoi essere un pagliaccio come me, hai sofferto troppo non farai mai ridere i bambini. Hai solo una speranza: diventare un pagliaccio triste”. E così sarà.
Nel 1973 ritroviamo Javier durante un colloquio con un rappresentante del circo. Si propone come “Payaso triste” e ottiene il lavoro a fianco della star Sergio, un pagliaccio istituzione per tutti i bambini, capace di strappar loro una risata in ogni momento ma al tempo stesso responsabile di una vita di coppia a dir poco movimentata. Sergio beve, si ubriaca quotidianamente e si lascia andare a comportamenti violenti con la compagna Natalia. Lei presto troverà in Javier una valvola di sfogo scatenando, al tempo stesso, la furiosa reazione di pagliaccio Sergio e innescando la miccia della pellicola che esplode letteralmente tra situazioni grottesche e una spirale di violenza senza fine. Intorno una Spagna desolata, povera, che vive gli ultimi giorni della dittatura franchista e sogna la rinascita.
“Ballata dell’odio e dell’amore” impressiona per la potenza simbolica richiamando le imprese di Jodorowski e del suo “Santa Sangre” dalla ambientazione circense ai personaggi – pagliacci e trapeziste – agli animali “tipici” come gli elefanti. Nella seconda parte del film la derivazione surrealista viene accantonata e la pellicola assume le sembianze di una enorme raffigurazione grottesca-horror che colpisce per la sua ferocia e spaventa per la nitidezza delle immagini grazie a una fotografia volutamente retrò che viene alternata con i numerosi intermezzi televisivi che raccontano di una Spagna alla deriva dove campeggiano le imprese del criminale evaso “El Lute” e si assiste basiti all’attentato che portò alla morte di Luis Carrero Blanco.
Tutto si confonde nella Spagna sotto dittatura disegnata da de la Iglesia, suoni, immagini e colori fino al triste e drammatico epilogo in cima a una gigantesca croce che ci risveglia bruscamente dal sogno, o forse dall’incubo, come quello provato dal regista che riesce a portare sullo schermo i ricordi di quando era poco più che un bambino. Una fervida immaginazione la sua che ci regala una indimenticabile allucinazione visiva di oltre cento minuti.
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