Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Novembre 22nd, 2010 | by antoinedoinel
9Summary: Pornografia dell’orrore difficilmente digeribile.
Il 9 aprile 2003, lungo le strade di una Baghdad in fermento, tra giovani e anziani che, dopo aver abbattuto la statua di Saddam Hussein, infieriscono rabbiosi sulle macerie, si aggira Sherko. L’aria di guerra che si respira, la violenza che si tocca, lo sfacelo che si accumula nei quartieri della capitale, riconduce la memoria dell’uomo, un signore dai capelli ormai grigi, ai torbidi di quindici anni prima, quando si consumava la fase conclusiva del conflitto fra Iraq e Iran. A una storia che inizia il 10 aprile 1988. Una tragica vicenda personale e collettiva, narrata nel corso di un fluviale flash back. I fiori di Kirkuk, prima co-produzione italo-irachena che gli annali del cinema tramandino, con anche la Svizzera di mezzo ad arricchire il quadro, è opera di un regista, Fariborz Kamkari, la cui biografia rappresenta davvero un ponte fra Italia e Medio Oriente. Iracheno d’etnia curda, si è formato nel Bel Paese, dove ha mosso anche i primi passi artistici. E un festival nostrano, Roma 2010, ha accolto, in concorso, la pellicola. Il genocidio curdo operato dal regine del rais, sulla base della presunta connivenza della minoranza etnica con il nemico iraniano, rappresenta, non a caso, lo sfondo su cui si sviluppa una trama a tinte forti. Najla (Morjana Alaoui), laureatasi in medicina in Italia, torna nel natio Iraq, dove le rimangono soltanto i facoltosi zii devoti a Saddam, per incontrare un collega conosciuto e amato all’università. Sherko, per l’appunto (Ertem Eiser). Un curdo. Ricercato dagli scagnozzi del potere per l’aiuto offerto, nella città settentrionale di Kirkuk, ai civili colpiti dalla persecuzione di Stato, Sherko conduce un’esistenza pericolosa e semiclandestina, mentre nei villaggi da lui assistiti la povertà si somma alle devastanti conseguenze delle armi chimiche impiegate dall’esercito. Najla, tradendo la famiglia e l’onore, si unirà alla causa di Sherko, suscitando la gelosia e il risentimento di un militare, Mokhtar (Mohamed Zouaoui), che su di lei ha messo gli occhi. Costretta, dopo l’arresto di Sherko, a entrare nei servizi interni per salvare la pelle a sé e all’amato, continuerà a spalleggiare la “resistenza” arrabattandosi in doppio gioco pernicioso. Le conseguenze saranno (in)immaginabili.
I fiori di Kirkuk si assume in carico un tema sensibile e doloroso, che, dall’Iraq ferito di allora espande la propria aura di significato fino alle lacerazioni che insanguinano, tuttora, il Paese. E proprio per l’importanza che l’esercizio e la conservazione della memoria storica di simili travagli rivestono, era legittimo e auspicabile attendersi un film dal profilo artistico e morale superiore, in luogo dello spettacolo patetico e irritante che solo l’impiego della macchina a mano, costante ormai vieta del cinema di guerra d’ambientazione mediorientale, distingue da una soap opera. La sceneggiatura, anch’essa (de)merito della penna di Kamkari, proprio nella saturazione dei clichès più banali sull’amore al tempo della guerra, impiatta già il film per la tavola, lautamente sponsorizzata, della prima serata di Rai Uno. Una fiction col patentino. La superficialità nella ricostruzione del contesto storico-politico (il sostegno dell’Occidente a Saddam nel conflitto contro l’esercito khomeinista viene pallidamente evocato da un servizio televisivo proveniente dall’Italia) è, dopo tutto, funzionale alla concentrazione delle energie drammaturgiche sul melodramma di Najla e Sherko. E se una storia d’amore raccontata con cognizione di causa allieta tutti, l’onta del film è quella di non saperci regalare nemmeno una passione degna di nota. Le psicologie planimetriche dei personaggi, macchiette che trainano gli accadimenti come il bue l’aratro, ostacolano qualsiasi coinvolgimento emotivo. E mentre le “telefonate” si sprecano (le virgolette a indicare l’accezione tecnica del sostantivo, alias i dialoghi iper-didascalici e posticci), le assurdità e le inverosimiglianze si stratificano in una quantità tale da indebolire la trama e il suo potere di penetrazione. Non sembrano serviti a molto all’eroica Najla gli studi di medicina in Europa, se fin dalla prima scena in cui compare la sorprendiamo con la sigaretta in bocca (ma, forse, senza sigaretta sarebbe stata troppo poco trasgressiva, troppo poco “occidentale”…), o se, il suo unico contributo a una partoriente esanime si risove in uno “Spingi!” ripetuto a oltranza (la puerpera però si riprende presto, e un istante dopo il parto si rivela un’informatrice lucida e impeccabile). Calando la sua protagonista nelle canoniche spire di un triangolo sentimentale fra lei, il ribelle e l’uomo di regime, costringendola, novella Floria Tosca, al dono delle sue grazie per ottenere un salvacondotto che risparmi la pena capitale all’amato, Kamkari procede alla canonizzazione di una figura femminile di sconcertante e programmatica mediocrità. Fino a un montato di immagini sacrificali che con la loro truculenza vengono a ricordarci che questo è ancora un film di guerra e di ingiustizie, mentre nella loro volgare gratuità rasentano una pornografia dell’orrore difficilmente digeribile. Come tutto il resto, d’altronde.
Dario Gigante
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