Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Novembre 29th, 2010 | by sally
0Summary: Le imperfezioni lasciano spazio ai contenuti e a un'argomentazione scottante, affrontata con grande coraggio.
“Il mio nome è Khan e non sono un terrorista”.
Ci sono troppi pregiudizi sul cinema made in Bollywood, e questo film è la prova che un prodotto non deve essere necessariamente confezionato negli USA per riuscire ad ottenere successo in tutto il mondo. “Il mio nome è Khan” è riuscito a far innamorare il pubblico di questa splendida ed incredibile storia.
Rizwan Khan è musulmano ed è affetto da sindrome di Asperger, lieve forma di autismo che rende difficile il relazionarsi con gli altri. Rizwan è estremamente intelligente ed altrettanto sincero e, come tutti gli individui affetti dalla SA, anche il ragazzo segue comportamenti stereotipati, ma apprende le cose con molta rapidità, ripetendo continuamente i concetti tra sé e sé. C’è un concetto che Rizwan apprende da piccolo e che non dimenticherà più: sua madre gli ha insegnato che il mondo si divide in due categorie, ci sono i buoni e ci sono i cattivi. Solo questo. Non c’è differenza alcuna di religione o razza, ci sono solo i buoni e i cattivi. Dalla periferia di Mumbai, una volta cresciuto e dopo la morte della madre, Rizwan decide di raggiungere il fratello, con il quale c’è stato sempre un rapporto di amore-odio dettato dalla gelosia, a San Francisco. Sarà lì che avverrà l’incontro con la bellissima Mandira e, nonostante le difficoltà che la sindrome comporta, riesce ad instaurare un ottimo rapporto con lei. I due decidono di sposarsi, Mandira da indù diviene musulmana e va a vivere con Rizwan e suo figlio, avuto da un precedente matrimonio. Diretto da Karan Johar, “Il mio nome è Khan” è un film ricco di imperfezioni, ma la sua capacità è quella di farle passare tutto in secondo piano per lasciare spazio ai contenuti. Si tratta di argomenti attuali ed universali, dall’amore alla religione, senza tralasciare gli ultimi avvenimenti storici, dal crollo delle torri gemelle all’elezione del Presidente Obama. Con la dolcezza e l’ingenuità trasmesse dalla figura del protagonista, la storia si dipana su vari livelli e non può fare a meno di intenerire lo spettatore, seppure i 161 minuti di durata risultino pesanti sul finire della pellicola. Dettaglio trascurabile, anche questo: il film è un vortice di emozioni e sensazioni, senza vittimismi e nemmeno senza grandi pretese.
Partiamo da un’India dilaniata dagli scontri tra musulmani ed indù, per arrivare agli Stati Uniti, al sogno americano che una volta divenuto tangibile non ha più nemmeno il retrogusto del riscatto ottenuto, la realtà è ben diversa e forse non cambia dall’India alla California, così come in qualsiasi altro posto: le controversie di base, quelle storiche, culturali e religiose, sembrano essere parte del nostro DNA, non ce ne separiamo mai. Il concetto è semplice: i cristiani hanno sempre diviso la storia in “avanti” e “dopo” Cristo, ma dall’11 settembre 2001 si sono ritrovati a parlare di “prima” e “dopo” l’attacco alle Torri Gemelle ed a rimetterci sono stati i musulmani. Nonostante il nostro protagonista sia cosciente del fatto che i buoni e i cattivi esistono in tutte le categorie senza distinzione di razza o religione, tutta la realtà che gli sta intorno sembra voler andare in direzione contraria. Ne “Il mio nome è Khan” l’attacco alle torri gemelle segna la maledizione che si scaglia contro i fedeli musulmani, additati come terroristi, senza tenere conto alcuno della persona in quanto tale. La paura collettiva scatenata dagli attacchi terroristici e dal diffondersi del concetto di guerra santa e l’idea di kamikaze pronti a farsi esplodere in qualunque momento e in ogni dove, sono i fattori che portano alla morte del figlio di Mandira. Il suo migliore amico lo accusa della morte del padre, caduto durante la guerra in Afghanistan; i compagni di scuola lo pestano fino a portarlo alla morte, essere musulmani è diventata una colpa. Un’argomentazione coraggiosa, un tema tutt’ora scottante, ma ancor più coraggioso è il nostro protagonista, interpretato da un bravissimo Shah Rukh Khan. Calatosi perfettamente nella parte, l’equivalente di Johnny Depp in India è affiancato dalla bella Kajol nei panni di una madre disperata che cerca solamente giustizia per il figlio, morto per una causa ingiusta o, peggio ancora, senza una vera causa. Da qui inizia il viaggio di Khan, un’esperienza on the road che rimanda vagamente al superbo Dustin Hoffman di “Rain Man”, che ha come unico scopo quello di poter tornare dalla sua Mandira dopo aver parlato al Presidente degli Stati Uniti e avergli detto di non essere un terrorista.
L’ostinazione di quest’uomo è talmente trascinante che finisce con il coinvolgere l’FBI, le tv, i giornalisti, la collettività: il volto di Rizwan è su tutte le tv, l’indiano musulmano che non vuole essere etichettato come terrorista diventa una realtà a distanza di anni dal terribile 11 settembre, ma al centro di una ferita che ancora brucia: Khan è il simbolo di tutti quei musulmani discriminati che non hanno mai avuto a che fare con l’integralismo, con la violenza e la morte. Esemplare la scena all’interno della moschea a Los Angeles, in cui il nostro particolarissimo eroe smonta in pochi secondi le teorie fondamentaliste, mentre si appresta ad incontrare finalmente, dopo un tentativo fallito, il presidente Bush. Anche questo tentativo, tuttavia, non si risolve per il meglio ma per il coraggio e la determinazione di Khan deve pur esserci un premio valido. “Il mio nome è Khan” è una storia incredibile, ma allo stesso tempo intrisa di elementi semplici che caratterizzano il nostro quotidiano: dopo l’11 settembre nessuno può negare di non aver provato un certo timore nell’incontrare individui dai tratti mediorientali in aeroporto o di non aver iniziato a pensare male dei musulmani. La storia e la religione, argomenti che si intrecciano e che fanno da sfondo a sentimenti genuini, sani, profondi. L’amore è ancora una volta, come sempre, al centro di ogni cosa, tutto si svolge in sua funzione e non c’è insegnamento migliore di quello che ci viene proposto, uno spunto su cui riflettere al di là del bombardamento mediatico degli ultimi anni:
Al mondo esistono persone buone e persone cattive, questa è l’unica differenza. E chi commette buone azioni è una persona buona, mentre chi commette azioni cattive è una persona cattiva.
Da questo concetto ha avuto inizio una storia capace di mettere insieme un mix di vite ed ingredienti: la diversità, l’amore, l’abnegazione. Un lavoro tecnicamente imperfetto ma capace di offrire emozioni, a volte forse dilungandosi, senza eccesso di sentimentalismi, senza volgarità, che di questi tempi è cosa fondamentale.