Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Settembre 25th, 2016 | by sally
Summary: Il primo regista che ha saputo contaminare il cinema italiano con un genere che fino ad ora era stato prerogativa degli USA
Ci hanno sempre fatto credere che in Italia certi generi cinematografici non potessero essere realizzati ma solo importati, dagli USA principalmente e soprattutto quei generi che, come l’azione e la fantascienza, richiedono l’utilizzo di numerosi effetti speciali.
In effetti è stato un bene che fino ad ora nessuno si fosse impegnato più di tanto per non seguire la scia dei film a stelle e strisce che registrano incassi da capogiro, evitandosi una clamorosa figuraccia. Un po’ come è successo a Gabriele Salvatores con “Il ragazzo invisibile“, apprezziamo lo sforzo ma non ha fatto centro. Poi è arrivato Gabriele Mainetti, carico di un’esperienza e di una conoscenza appropriate per cimentarsi nell’impresa, ed ecco che è venuto fuori “Lo chiamavano Jeeg Robot“.
Il film di Mainetti ha un titolo che può trarre in inganno, non ha niente a che fare con il Jeeg Robot d’acciaio che vi ha fatto subito venire nostalgia della vostra infanzia. Il protagonista è Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), un ladruncolo di periferia che cade nel Tevere e viene contaminato da un barile di scorie radioattive. Dopo giorni di sofferenza e febbre alta, Enzo scopre di avere una forza sovrumana e decide di usarla per i suoi crimini. Il supereroe per antonomasia usa i suoi super poteri per salvare l’umanità, Enzo si accontenta di svuotare le banche, mentre il suo percorso si incrocia con quello di due personaggi importanti. Il primo è Alessia (Ilenia Pastorelli), la ragazza è instabile e non ha superato i suoi vecchi traumi, durante le sue giornate guarda instancabilmente gli episodi di “Jeeg Robot d’acciaio” e si convince che Enzo sia la versione in carne ed ossa di Hiroshi, arrivato per salvarla. Il secondo è Fabio Cannizzaro aka Lo Zingaro (Luca Marinelli), un pazzoide criminale dalla sessualità fluida e dai gusti musicali orientati sul meglio degli anni Ottanta italiani. Tutti personaggi così ben definiti che già solo per questo è impossibile non amare il film.
La cosa che però si nota di più in “Lo chiamavano Jeeg Robot” è l’equilibrio, tutto è perfettamente calibrato e non c’è un difetto di cui lamentarsi, forse l’unica sbavatura è la tempistica nella seconda parte del film, più dilatata e lenta, ma niente che disturbi davvero lo spettatore. Incredibile ma vero, le scene d’azione funzionano, i dialoghi sono perfetti e i personaggi sono scritti così bene che si amano tutti indistintamente, dalla fragile Alessia allo psicopatico Fabio. Luca Marinelli ha compiuto un lavoro eccellente, calandosi nei panni dello Zingaro in modo più che convincente, strizzando l’occhio al Joker di Heath Ledger, però con l’accento romanaccio. Un personaggio dalle mille sfaccettature che conquista il pubblico per il suo essere bizzarro e oltremodo fuori di testa. Alessia è la figura più fragile, a Ilenia Pastorelli è andato l’arduo compito di strappare lacrime al pubblico. L’ex gieffina ha debuttato sul grande schermo proprio con questo film, diventando subito la grande rivelazione della stagione. Tanto di cappello a Gabriele Mainetti, che ha diretto magistralmente i suoi attori, riuscendo a tirare fuori ogni sfaccettatura di ciascun personaggio, ogni attore sembra essere a suo agio con il ruolo che interpreta, la Pastorelli non fa eccezione. E poi c’è Enzo, il supereroe in bilico tra moralità e amoralità, un Claudio Santamaria “pompato” e perfettamente immerso nella parte, che trasuda la sofferenza dell’indeciso, di quello che non ha capito bene da che parte bisogna stare, quale sia il confine tra giusto e sbagliato, confusione derivante da un passato e un ambiente di certo poco istruttivi.
Musiche, azione, dialoghi, emozioni, dramma e comicità, in “Lo chiamavano Jeeg Robot” tutto è bilanciato, è dove deve essere, inoltre il finale lascia sperare nella possibilità di un sequel. Mossa rischiosa, certo, ma arrivati a fine film non si può fare a meno di pensare “Ne voglio ancora” e applaudire al primo regista che ha saputo contaminare il cinema italiano con un genere che fino ad ora era stato prerogativa degli USA.