Recensioni Mank 2

Published on Dicembre 4th, 2020 | by sally

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Mank: la recensione del film di David Fincher uscito su Netflix

Mank: la recensione del film di David Fincher uscito su Netflix sally

Un perfetto Gary Oldman

Recensione CineZapping

Summary: Il "dietro le quinte" del cinema raccontato attraverso la storia di Mankiewicz.

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Le storie di Hollywood (e non solo, pensate a “8½” di Fellini) nascono da una crisi, vivono di crisi e fioriscono nella crisi. “Mank” è ambientato negli anni dopo la Grande Depressione, a un passo dalla Seconda Guerra Mondiale, in una California invasa da “turisti” stranieri e l’imminente minaccia socialista, con la MGM perennemente sull’orlo del precipizio. David Fincher racconta l’altra faccia della Golden Age di Hollywood, ultimamente svelata sempre più spesso nella sua versione peggiore, nell’incubo che è stata (vedi “Feud” di Ryan Murphy) – ma capace di mantenersi sempre un argomento affascinante, nonostante questo. Un incubo, a quanto pare, sono state anche le stesse riprese di “Mank”, per il cast che si è rivoltato contro David Fincher: la scena di Oldman ubriaco durante la cena da Hearst è stata girata oltre 100 volte… Dire che il regista sia maniaco della perfezione è poco. E il lavoro maniacale che c’è dietro è evidente: una pellicola in bianco e nero, che richiama continuamente lavori dell’epoca, girata in digitale – con tanto di bruciature, un tocco da vero ossessivo. L’importanza dell’opera per Fincher però deriva anche dal fatto che a scriverla non è stato lui, ma il padre, Jack Fincher, scomparso nel 2003.

Quarto potere” racconta una storia di sofferenza, che prende spunto da una storia reale. E dietro alla storia reale, ci sono altre decine di storie sofferte, inclusa quella del genio Herman Mankiewicz, i suoi problemi con l’alcolismo (che lo portarono alla morte nel 1953). “Mank” rappresenta anche il dilemma di chi sta dietro i grandi capolavori e non viene mai riconosciuto, ricordato, menzionato, ringraziato. Non è poi una novità che ci sia qualcun altro che vuole prendersene interamente il merito. Perfino il giovanissimo “genio da New York”, un Orson Welles (Tom Burke) presuntuoso quanto basta da ottenere ciò che vuole, al quale viene concessa una libertà d’azione inimmaginabile allora e anche oggi, e così capace da essere considerato ancora uno dei grandi geni di Hollywood. Il suo “Quarto potere” è uno tra i migliori – per alcuni il migliore in assoluto – film della storia del cinema, ma quando si parla di “Quarto potere” si parla di Orson Welles e mai di Mankiewicz. David Fincher racconta cos’è successo prima di arrivare al “parto” della pellicola, ma si concentra prevalentemente sulla figura di Mankiewicz in qualità di essere umano. “Mank” parla dell’artista e dell’uomo, del genio problematico che è stato, e lo fa in due ore di film in cui spara un flashback dietro l’altro, senza perdersi nel dare troppe spiegazioni. Notevoli, inoltre, sono la fotografia di Erik Messerschmidt e la colonna sonora, frutto della fidata accoppiata composta da Trent Reznor e Atticus Ross.


Mank


Il lato oscuro della Golden Age

Nella Hollywood dell’epoca succedeva una cosa insolita, se vista con gli occhi oggi: gli sceneggiatori prima di tutto il resto, motivo per cui un genio come Mankiewicz approfitta del suo “privilegio”, dimenticando, spesso e volentieri, che non si deve mai tirare troppo la corda. “Mank” procede in un botta e risposta sempre rapido, arguto, non lascia spazio alla noia: oltre due ore a ritmo serrato, risposte brillanti e colpi di genio. Sono diverse le scene degne di nota, e potremmo perderci nel raccontarle tutte, ma quella che più sintetizza quello che Hollywood rappresenta oggi e rappresentava già allora, è quella in cui Louis B. Mayer (Arliss Howard) deve chiedere ai suoi dipendenti un enorme sacrificio, in tempi di crisi. Lo fa dicendo di essersi presentato in ginocchio, senza inginocchiarsi; ringraziando il suo pubblico con gli occhi lucidi e, una volta ottenuto quanto richiesto, volta le spalle e chiede al suo assistente com’è andata – come se fosse la scena di un film qualunque interpretata da un’attricetta vanitosa, o un pensiero da poco. La sintesi della storia del dietro le quinte del cinema racchiusa in pochi minuti, l’essenza stessa del film e del destino di Mankiewicz – e purtroppo di molti altri caduti nella stessa trappola, se non in trappole peggiori. Notevole è anche il dialogo che avviene tra lo sceneggiatore e il magnate William Randolph Hearst (Charles Dance): un tempo, prima di ispirarsi a lui per la sceneggiatura di “Quarto potere”, Mank era una sorta di giullare moderno nei suoi salotti ed anche un buon amico della sua amante, Marion Davies (Amanda Seyfried), anche lei diventata fonte d’ispirazione per la sceneggiatura del film.

Quarto potere” fa da sfondo alle vicende di Mank e viene ripreso nella struttura del film, alla quale si rifà lo stesso Fincher. Il regista, come sempre, riesce a raccontare l’origine delle cose e ad offrire una narrazione dei comportamenti e della mente umana in tutte le sue sfumature, senza che appaia mai un gesto di giudizio né di condanna. Altro elemento ricorrente, è il parallelismo con Don Chisciotte, che lo stesso Mankiewicz ama citare. Fincher procede tra continue citazioni, riferimenti e un’estrema precisione nel tentativo (riuscito) di rendere “Mank” quanto di più attinente ci possa essere nel 2020, rispetto a qualcosa prodotto negli anni ’40. Il risultato è un film intrigante, piacevole, non destinato probabilmente a un pubblico troppo vasto ma capace di intercettarlo e, chi lo sa, catturare il suo interesse. Forse non si può dire che questo sia il film più bello della carriera di Fincher, ma di certo è degno di nota e papabile per la corsa agli Oscar. Gary Oldman una statuetta se la meriterebbe, fosse anche solo perché ha 20 anni in più rispetto al personaggio che interpreta, ma riesce comunque a regalare un’interpretazione accurata e magistrale.


Mank main 1200


Quanti Mank e quanti Welles sono passati e passeranno da Hollywood? Difficile tenere traccia e pochi, probabilmente, avrebbero il coraggio di avanzare pretese. “È la cosa più bella che io abbia mai scritto” dice finalmente Mankiewicz, prendendo coscienza del suo lavoro, quando decide di non perdere l’occasione di essere accreditato. Risulterà agli occhi del mondo intero che la sceneggiatura sia stata un’opera scritta a quattro mani, con un Oscar da dividere a metà col geniale regista, all’epoca solo venticinquenne. E Welles vorrà prendersi il merito del risultato di questo enorme successo pur non avendo scritto nulla, anche solo per aver rimesso in riga lo sceneggiatore, isolato a seguito di un brutto incidente, per tenerlo lontano da scommesse e alcolici – affiancato dall’assistente Rita Alexander (Lily Collins).

Quella di “Mank” è la storia di ieri e la storia di sempre, perché la storia è ciclica e si ripete e perché il cinema, la grande “fabbrica dei sogni” (come la chiamerebbe Mayer), è pur sempre fatta di e da esseri umani. E il motivo per cui ci piace il cinema è che racconta sempre un po’ di noi, che si tratti di gloria o di miseria.

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