Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Aprile 14th, 2014 | by alessandro ludovisi
0Summary: Un ritratto interessante del costruttore dell'Arca mostrato come un essere umano che si rende umile al cospetto di Dio, il tutto in ambientazione fantasy.
Darren Aronofsky (Il cigno nero, The Wrestler) con “Noah” realizza una trasposizione cinematografica di un celebre episodio biblico, l’Arca di Noè, in chiave fantasy.
L’ambizioso progetto, agognato dallo stesso regista sin dall’adolescenza quando venne letteralmente rapito dal personaggio Noè, ha goduto di un budget piuttosto cospicuo, oltre 120 milioni di dollari, e un cast di stelle dove spiccano i nomi di Russell Crowe, Anthony Hopkins, Jennifer Connelly ed Emily Watson.
Noè, discendente di Set, assiste in sogno a una nefasta visione con una montagna e una gigantesca inondazione. Sconvolto dalla premonizione si mette in viaggio alla ricerca del nonno Matusalemme e allo stesso tempo si rende conto che, nonostante la diffidenza della famiglia, il suo compito è costruire un’arca capace di contenere due esemplari di ogni specie animale prima che un diluvio universale distrugga il mondo. Noè è, infatti, il prescelto del Creatore e l’uomo sulle cui spalle è affidato il futuro dell’umanità.
Giudizio
Noah stupisce per l’indubbia qualità degli effetti speciali e per l’adattamento contemporaneo di uno degli episodi più importanti dell’Antico Testamento. La storia di Noè non occupa, in realtà, molto spazio all’interno della Genesi eppure le sue gesta riecheggiano, ancora oggi, nel mondo moderno e l’obiettivo di Aronofsky sembra essere quello di riportare alla luce un mito ma rielaborandolo e rendendolo cinematograficamente appetibile. Una operazione riuscita che ha generato non poche polemiche e un aspro dibattito religioso sulla presunta mancata aderenza della storia di Noè sul grande schermo con l’episodio narrato nella Bibbia.
Il talentuoso regista neworkese ci propone un ritratto interessante con il costruttore dell’Arca mostrato come un essere umano che si rende umile al cospetto di Dio, impegnandosi in un progetto apparentemente impossibile e insostenibile per un solo uomo. Ed ecco che lo stesso Noah di Aronofsky può facilmente trasformarsi in un dramma famigliare o, esagerando, in un film catastrofico e apocalittico più che in una pellicola di ricostruzione storica, in una operazione che può essere giustificata dalla mancanza di riferimenti nel testo originale. Come se il regista avesse voluto riempire le parti mancanti nella Genesi, come il reperimento dei materiali dell’Arca o la presenza della moglie solo accennata nell’Antico Testamento, con una sua personale visione fantasy tra combattimenti e figure soprannaturali. Noah può fregiarsi di un montaggio serrato, in linea con lo stile del regista stesso, e di un cast che nelle figure di Crowe e Connelly risulta assolutamente funzionale alla storia. La seconda, soprattutto, è stata capace di donare alla moglie di Noè una caratterizzazione efficace – e allo stesso tempo moderna – pur non avendo a disposizione una biografia ampia sulla moglie del patriarca biblico.
L’arca, ovviamente protagonista passiva ma imprescindibile, è stata ricostruita in maniera assolutamente fedele, come mai era accaduto nelle trasposizione cinematografiche – e non – del passato. La forma, infatti, non ricorda quella di una nave ma di una enorme scatola che aveva il compito di “proteggere” e non di “navigare”. La costruzione, artigianale e rinunciando agli effetti digitali, della gigantesca Arca ha permesso allo stesso Aronofsky di godere di una visione d’insieme altrimenti difficilmente raggiungibile, mentre gli animali che la popolano sono stati creati digitalmente anche per la naturale difficoltà che avrebbe riscontrato la produzione nel tenere a bada degli animali reali. Il risultato finale è incredibile e assolutamente realistico e nella sua messa in scena ibrida, tra questioni umane e volontà divina. il cineasta statunitense dimostra, ancora una volta, il suo talento riuscendo a commistionare il mito con la leggenda aggiungendo un visionario marchio di fabbrica pur accusando, in alcune battute, di scadere in un sentimentalismo commerciale che dona ai personaggi in scena meno forza rispetto all’imponente scenografia che li circonda.