Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Luglio 20th, 2012 | by Andrea Lupia
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“Il cielo sopra Berlino” (1987), è considerato da molti il capolavoro del regista Wim Wenders. Narra le vicende dei due angeli Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander) che si muovono nella Berlino degli anni ottanta prima della fine della Guerra Fredda.
Il ruolo dei due esseri è quello di osservatori, che registrano lo svolgersi degli eventi e contribuiscono al mantenimento della realtà. Sono invisibili agli occhi degli esseri umani e non possono (o non potrebbero) interferire con le faccende terrene. Fra le varie vicende, che riguardano le vite ed i pensieri degli abitanti della città, spiccano quella della bella artista circense Marion (Solveig Dommartin), prigioniera della solitudine e della quale l’angelo Damiel finisce per innamorarsi e quella di Peter Falk, che nella parte di se stesso è a Berlino per interpretare un ruolo in un film sui Nazisti e che si rivelerà poi un angelo che ha scelto di “cadere” per poter vivere una vita dove potesse interagire con il mondo.
E’ proprio l’incontro con Peter Falk che spingerà l’angelo Damiel a cadere, così da sperimentare la vita mortale, con i suoi pro ed i suoi contro.
La pellicola, girata in un affascinante bianco e nero, nasce da varie ispirazioni fra le quali la più citata nel corso degli anni è stata quella delle poesie di Rainer Maria Rilke di cui alcuni brani sono citati anche nel film stesso. Pur non godendo della stessa quantità di menzioni, c’è almeno un’altra fonte di ispirazione che andrebbe citata, anche se di carattere diverso ed è l’opera teatrale “Sangue sul collo del gatto” di Fassbinder, riguardante l’osservazione degli umani da parte di una entità aliena.
Nonostante il trionfo al 40esimo Festival di Cannes (Premio alla Miglior Regia), il film è uno dei meno conosciuti dal pubblico, anche fra quelli dello stesso Wenders dei quali preferisce quelli più noti come “The million dollar hotel” (2000). Non capita molto spesso che si abbia la possibilità di vederlo nei circuiti televisivi, che per ovvie ragioni sono più propensi a propinare più e più volte nell’arco dell’anno il remake del 1998 “The city of angels” con protagonisti Meg Ryan e Nicolas Cage ed è un vero peccato. Lontano dalle atmosfere più tradizionalmente Hollywoodiane, il film di Wenders sa arrivare in profondità, prendendo a piene mani dal bagaglio di domande ed insicurezze che il cinema spesso fatica a raccontare, perdendosi più nell’immagine fine a se stessa che nell’usare la stessa per qualcosa di più.
Il grande merito di questo film è saper emozionare ad ogni visione, grazie al suo carico di profonda e dolorosa umanità, piccola e coraggiosa tanto nei grandi e tragici destini quanto nei gesti più piccoli, quotidiani come bere una tazza di caffè. Se si dovesse cercare una ragione per vedere questo film (una diversa dal conoscere un pezzo essenziale della storia del cinema), sarebbe quella di lasciarsi trasportare, trascinare e travolgere dalle comuni vite dei comuni esseri umani. Tanto normali da essere fragili, tanto speciali da far scegliere agli angeli una vita terrena.
“Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia? Come se qualche volta ci si dovesse chinare per vivere ancora. Vivere, basta uno sguardo.” (Marion)
Voto:
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