Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Maggio 6th, 2017 | by sally
0Summary: Una serie distopica che si distingue da tutte le altre, assolutamente da vedere. Ottima premessa.
Se dovessimo immaginare gli effetti più catastrofici della misoginia di Donald Trump, gli Stati Uniti nell’arco di pochi anni potrebbero trasformarsi realmente in Gilead, la società raccontata da Margaret Atwood nel suo romanzo “The handmaid’s tale” del 1984.
“Il racconto dell’ancella” è il titolo italiano dell’opera, sbarcata in versione serie tv su Hulu lo scorso 26 aprile con protagonista Elizabeth Moss, la straordinaria Peggy Olson di “Mad Men“. I primi tre episodi sono stati rilasciati insieme e sono un’ottima premessa, fin da subito è chiaro l’altissimo livello della serie ideata da Bruce Miller, composta peraltro da un notevole cast.
Gilead è quel che gli USA sono diventati in un futuro distopico non troppo distante da noi, in cui la società è governata solamente da uomini e la fertilità è diventata una merce rara. Merce, esattamente, è quello che è la più naturale delle proprietà. In questa nuova società viene negato ogni tipo di libertà alle donne, considerate solo in base alla loro possibilità di avere figli o meno. Il futuro avanza inseguendo la tradizione più antica, la nuova impronta mentale si basa sulla storia biblica di Rachele. La donna, sterile, non riusciva a dare un figlio a Giacobbe, perciò diede la sua serva, Bila, al marito, per poter avere figli usandola come quella che oggi definiremmo “madre surrogato”. La differenza coi tempi che corrono, però, è che nulla di tutto questo è facoltativo e a Gilead si è formata una nazione orwelliana in cui il Comandante di turno schiavizza a tutti gli effetti le donne fertili per poter mettere al mondo altri figli. Le ancelle, che indossano abiti che sembrano essere saltati fuori da un armadio amish, sono completamente succubi dei comandanti e delle loro mogli frustrate, un esercito di Rachele vendicative e gelose, sovrastato dal controllo delle “zie” e da spie che si potrebbero nascondere in ogni angolo e dietro gli occhi di chiunque. Non ci si può fidare di nessuno a Gilead e Offred (Elisabeth Moss) è la protagonista assoluta di “The Handmaid’s Tale“. La storia parte proprio da lei e rivela poco a poco come si è arrivati alla società attuale, la Moss è una perfetta interprete del disagio e lo strazio della condizione in cui Offred e tutte le altre donne riversano, costrette a subire e accettare violenze fisiche e psicologiche di ogni genere.
“The Handmaid’s Tale” è stata una piacevole ma dolorosa scoperta, un prodotto di qualità targato Hulu perfettamente gestito, in ogni minimo particolare. La scelta degli interpreti è più che azzeccata e l’ansia che naturalmente deriva già al solo sentire pronunciare la parola “distopia” è ben calibrata e riportata sullo schermo, con un perfetto inserimento dei brani della colonna sonora, sempre a effetto, puntuali e pronti a rimarcare un concetto in bilico tra l’anacronistico e una finzione che potrebbe rivelarsi una realtà imminente – e per questo ancora più ansiogena. “The Handmaid’s Tale” è un prodotto che segue la moderna ondata di femminismo senza però volerne portare la bandiera, racconta una storia che si rivela senz’altro spunto di riflessioni e che fa veramente male.
Qui c’è l’impalcatura della sceneggiatura che sorregge tutto il cast e fa funzionare l’intero meccanismo, portandoci a consigliarvi vivamente di guardarla. Nel cast compare anche Alexis Bledel, la celebre Rory Gilmore di “Una mamma per amica” ha un ruolo totalmente inedito, quello della controversa e intensa Ofglen. C’è poi Samira Wiley, l’adorabile Poussay di “Orange is the new black” ha un ruolo che per molti aspetti ricorda quello della serie Netflix che l’ha resa celebre, forse per l’impronta femminista che accomuna entrambe le produzioni. C’è poi la fazione dei “cattivi” di turno. Yvonne Strahovsky impersona Serena Joy Waterford, la moglie del Comandante Fred Waterford (Joseph Fiennes), esprimendo perfettamente tutta la sua frustrazione. In una serie come “The Handmaid’s Tale” è molto facile lo schieramento ma è importante non ignorare le sfumature: le due fazioni sono chiare e evidenti, ma con un minimo di empatia si riescono a comprendere le ragioni del personaggio più odioso e odiato, fin da subito. C’è ancora molto da vedere, ma i meccanismi sono già chiari, un potere grande, invisibile e apparentemente invincibile muove tutti come pedine, a rimetterci sono le donne. In una società interamente governata da uomini, anche le donne in apparenza privilegiate non hanno sconti e sono egregiamente sintetizzate nelle espressioni del volto della Strahovsky, costretta a partecipare a una perversa cerimonia di fecondazione e a condividere il proprio marito con una sconosciuta che ha qualcosa che lei non ha: è fertile. La stessa moglie del Comandante altro non è che un oggetto di abbellimento, da tenere al proprio fianco senza amore nè calore: le donne sono oggetti decorativi o organi sessuali da usare con l’unico scopo di ripopolare il mondo. Ma c’è una cosa che in mezzo a queste nuove macchinose abitudini e in questa nuova società viene repressa e sottovalutata, imprescindibile dall’essere umano: i sentimenti. Che scalciano, scalpitano e chiedono di fare prepotentemente ritorno.