Tom Cruise oltre Mission Impossible
20 Novembre 2023
Published on Maggio 6th, 2018 | by sally
0Il tempismo è tutto nella vita, soprattutto quando decidi di girare un film che tratta argomenti che hanno la stessa leggerezza di una bomba Zar. Questo Volker Schlöndorff nel 1990 non lo sapeva, probabilmente non ci aveva pensato, era un periodo di grandi cambiamenti.
Margaret Atwood aveva scritto “The handmaid’s tale” (Il racconto nell’ancella) nel 1985 ispirata dal muro di Berlino che divideva la città in due parti. Aveva immaginato un futuro distopico, il suo romanzo è ambientato nella società fittizia di Gilead in seguito a un disastro ecologico che ha reso il 99% della popolazione sterile. Un misto di rimandi biblici ma anche storici, a regimi politici repressivi, con l’aggiunta dell’intuito necessario per comprendere la direzione in cui si stava andando. Nel 1990 la situazione era cambiata, il crollo del Muro era già avvenuto ma il futuro non era chiaro a molti. Volker Schlöndorff nel frattempo portava al cinema il romanzo dell’autrice canadese, raggiungendo risultati inaspettati, nel senso più negativo del termine. La critica lo massacrò e “The handmaid’s tale” fu un flop al botteghino. Lo abbiamo visto, quasi 30 anni di distanza, in occasione del Festival degli Scrittori di Firenze, alla presenza del regista e dell’autrice, Margaret Atwood. È comprensibile perché negli anni ’90 nessuno abbia apprezzato l’opera di Schlöndorff – nonostante il successo del romanzo – e perché oggi abbia tutto un altro sapore. Viene spontaneo paragonarlo alla pluripremiata serie targata Hulu con protagonista Elizabeth Moss ma quelli di oggi sono ben altri tempi, gli equilibri si sono spostati. Come ha sottolineato la stessa Atwood, le riprese della serie sono iniziate due mesi prima dell’elezione di Donald Trump e a quel punto sia lei che la produzione si resero conto che sarebbe stata percepita in tutt’altra maniera. E così è stato.
Al di là della storia travagliata che il film ha avuto in fase di produzione, per far capire come e quanto siano cambiati i tempi basta pensare al casting. La protagonista del film, che si chiama Kate e non June, è interpretata da Natasha Richardson. Inizialmente per il ruolo era stata selezionata Sigourney Weaver, che veniva dal successo di “Alien” e “Ghostbusters”. Già titubante di suo, l’attrice poi rimase incinta e dovette abbandonare la parte. Per un ruolo simile, oggi, nessuna attrice esiterebbe, mentre all’epoca fu difficile arrivare a trovare la protagonista poiché tutte le attrici rifiutavano il ruolo, preoccupate delle conseguenze che avrebbe avuto sulla carriera. Il 1990, insomma, era lontanissimo dalla rivincita femminista (a tratti esasperata) odierna di Hollywood, dalla Gal Gadot/Wonder Woman che diventa esempio da seguire fino al reboot di “Ghostbusters” (per rimanere in tema Weaver) tutto al femminile. La Richardson, in sostanza, era già un passo avanti.
Il film di Volker Schlöndorff, sceneggiato da Harold Pinter e con le musiche di Ryuichi Sakamoto, non si attiene completamente al romanzo di Margaret Atwood. Rispetto alla serie di Hulu sono state effettuate molte modifiche, all’epoca anche per renderlo più contemporaneo e credibile, per evitare che l’effetto distopia rischiasse di dissociare troppo lo spettatore. Purtroppo il risultato fu disastroso e il film finì nel dimenticatoio ma oggi è possibile riguardare il lavoro del regista tedesco con occhi diversi. Le lacune non mancano, a partire dal punto di forza del romanzo e della serie: il monologo di June. Totalmente estirpato nel film, non permette allo spettatore di calarsi nei panni della protagonista, Difred si perde così in mezzo al resto del cast e la sua storia viene quasi messa alla pari delle altre. Certo, fu una sfida riuscire a riassumere il romanzo, senza mortificarlo nè amputarne parti importanti, in poco meno di due ore. Tutti gli episodi più importanti dell’opera di Atwood sono riportati anche nel film di Volker Schlöndorff e alcuni personaggi risultano essere più fedeli rispetto alla serie.
Faye Dunaway interpreta Serena Joy, la frustrata moglie del comandante è un’altalena di sentimenti, si muove tra rabbia e compassione ed è una nostalgica della sua vecchia vita. Un dettaglio non da poco: le donne della società di Gilead sono private della loro autonomia e indipendenza e in questa rappresentazione la Joy sembra essere l’unica a sentire davvero la mancanza di questo aspetto. Il Comandante è impersonato da Robert Duvall, anche lui vive di sentimenti contrastanti, la confusione regna sovrana all’interno della nuova società, che priva le persone di tutto ciò che le rende umane. Non sono più persone ma oggetti, strumenti utili a raggiungere un obiettivo più alto e più grande. In mezzo a tutto questo caos e ai tentativi di rivolta da parte dei Ribelli, la Kate del film di Schlöndorff è quasi passiva. Risulta essere meno rabbiosa e determinata, meno agguerrita, a tratti rassegnata e fin troppo tranquilla nell’assecondare il suo destino. Nonostante abbia deciso di lottare per dare un nuovo futuro alla creatura che porta in grembo, non ha la stessa aggressività che si percepisce anche nel romanzo. Forse perché il momento storico non era quello adatto a rappresentare un personaggio rabbioso come quello portato sullo schermo da Elizabeth Moss. Oggi tutto è cambiato, ed è possibile dire che Volker Schlöndorff può prendersi la sua rivincita.
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